Mi accesi una sigaretta - la terza?, la quarta? - e aprii un po' il finestrino. Cosa sarà successo?, mi chiedevo, qualcosa dev'essere successo per chiamarmi così, alle quattro del mattino. Di domenica! Sua madre, pensavo, è successo qualcosa a sua madre! Ma lei è sempre così contenuta, sempre attenta a non darmi troppo da pensare. Fai presto, aveva detto al telefono, più presto che puoi. Faccio colazione e arrivo, no, aveva detto, ti prego vieni subito. Ma... Subito, subito, ti prego, parti subito o sarà troppo tadi. E così, senza nemmeno sciacquarmi il muso, mi ero vestito e mi ero messo in macchina e mi ero acceso una sigaretta e poi un'altra. Ed ero nervoso, anzi di più, ero agitato preoccupato in apprensione, con tutti i pensieri peggiori del mondo: morte, malattia, incidente eccetera. E' vero che lei mi ha detto di non preoccuparmi. Non preoccuparti, mi ha detto, ma questo si dice sempre, specie quando c'è effettivamente di che preoccuparsi. Non ti devi preoccupare è una frase tipica, pensavo guidando il più veloce possibile, una frase che si dice sempre e comunque, ci sia o non ci sia motivo di preoccupazione. Così uno non sa mai se deve preoccuparsi o no, e allora si preoccupa. Io mi preoccupo!, e più mi dicono no, non preoccuparti, non c'è niente di cui preoccuparsi, più io mi preoccupo. Almeno fino a quando non so esattamente di che cosa non mi devo preoccupare. E' così, che ci posso fare? Mi accesi un altra sigaretta - la quarta?, la quinta? - e diedi una profonda boccata. E poi alla Rivella, pensavo, al cimitero della Rivella alle quattro e mezza del mattino, e non dovrei preoccuparmi! Presto presto, aveva detto, prestissimo, o sarà troppo tardi. Troppo tardi per cosa?, pensavo, cosa cazzo sarà successo? E intanto seconda, terza, ancora seconda, poi terza e su per la collina verso il cimitero. Prestoprestissimo fino in cima alla collina. Fortuna che a quest'ora non c'è traffico, pensavo. Arriverò in tempo, non lo so per cosa, ma arriverò in tempo. Ecco, sono arrivato. Parcheggiai. Scesi. Mi avvicinai a lei. Mi stava aspettando sul piazzale davanti al cimitero, seduta su una panchina. Mi girava le spalle. La chiamai. Non si voltò. Traversai la strada di corsa, senza guardare. Mi sedetti vicino a lei. Mi guardò un attimo, ma girò subito la testa e riprese a guardare dritto davanti a sè. Sono qui, dissi, eccomi, sono qui. Ho fatto prima che ho potuto. Cos'è successo?, cosa c'è?, sono qui, eccomi. Mi prese la mano e fece un cenno col capo. Il cenno voleva dire: guarda. Girai la testa e guardai verso est, giù verso la pianura, dove guardava lei. Vidi un'alba bellissima.
Vitaliano Trevisan (Shorts, Einaudi, 1995)
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optando per ''Peace Piece'', uno splendido brano minimalista di
un mostro sacro del jazz come Bill Evans, le cui note mi
sembrano abbastanza adatte sia per accompagnare una voce
fuori campo (quella del protagonista sopito nei suoi pensieri)
sia per ''massaggiare'' le atmosfere ricreate da quelli che sarebbero
i giochi di luce legati alle ambientazioni del cortometraggio.
Tricky