Il drammatico susseguirsi degli eventi tragici degli ultimi mesi non ha di certo trovato eccezione in ambito musicale allorché il bollettino di chi ci stà lasciando (covid o meno), si stà facendo giorno dopo giorno sempre più pesante. Oltretutto trattasi in buona parte di artisti la cui rilevanza va ben oltre il genere di apparteneza musicale ai quali solitamente vengono associati: Little Richard, McCoy Turner, Lee Konitz, Bill Withers, John Prine, Hal Willner, Florian Schneider, Genesis P-Orridge, Andrew Weatherall... solo per citarne alcuni.
Non si salva nemmeno l'amata Africa, e a poco più di un mese dalla scomparsa del grande Manu Dibango (il 24 Marzo scorso) ci troviamo a piangere un altro vecchio leone come Tony Allen, mancato il 30 Aprile scorso a Parigi all'età di 79 anni per cause che, almeno per il momento, neanche il suo manager Eric Trosset ha saputo indicare con precisione, pur non mancando di dedicare al batterista nigeriano commoventi parole di commiato: “Addio Tony! I tuoi occhi hanno visto ciò che la maggior parte di noi non poteva vedere. Sei la persona più cool della terra! E come dicevi sempre ‘Non c’è fine'”.
Nato a Lagos il 12 Agosto del 1940, Tony Oladipo Allen comincia ad apprendere la tecnica della batteria da autodidatta ascoltando le registrazioni della Blue Note e in particolare dei suoi idoli Art Blakey e Max Roach. Dopo gli esordi sulla scena Highlife con i Koola Lobitos, la sua via africana al jazz, al rhythm’n’blues, al soul e al funky è già fatta. Per tre lustri sarà a fianco di Fela Kuti come batterista e direttore della sua incendiaria orchestra (Africa 70) . Con il suo drumming pirotecnico e poliritmico e la messa a punto di una innovativa formula ritmica, Allen contribuisce in maniera determinante a definire uno dei generi che più hanno lasciato il segno nella musica africana moderna: l'afrobeat. Non fosse che per questo si meriterebbe un posto importante nel proscenio della musica contemporanea di matrice multietnica e non solo.
Ai fasti seventies della fornace afrobeat felakutiana, Allen risponde in proprio realizzando un pugno di dischi di grande spessore (Jealousy (1975) / Progress (1977) / No Accomodation For Lagos (1979) / No Discrimination (1979)) alcuni dei quali coprodotti dallo stesso Fela Kuti con Africa 70. Sono lavori importanti non solo come tappe della carriera del batterista, ma anche rispetto alla totale adesione del musicista al tracciato artistico e politico del suo mentore.
Segnato dal selvaggio assalto dei militari alla Kalakuta Republic di Fela (raid che costa tra l'altro la vita all’ anziana madre) e alla rottura del sodalizio artistico con lo stesso, al principio degli anni Ottanta Allen decide di trasferirsi in Europa (Londra e Parigi) per tentare una carriera personale. A dire il vero senza grande successo, malgrado la buona accoglienza ricevuta nella seconda metà del decennio da album come NEPA (1984) e Afrobeat Express (1989), o collaborazioni con musicisti come Roy Ayers, Ray Lema (per l'album Médicine, '86) e Manu Dibango.
Digerita la lezione degli anni Ottanta le idee più aperte e danzabili della nuova elettronica internazionale viaggiano spedite verso l'ombelico del ritmo e Tony Allen non perde l’occasione per rimettersi in gioco nel contesto della nuova ''club culture'' senza però perdere il filo e l'essenza della musica tradizionale africana. Ne è buon esempio l'album Black Voices (Comet, 1999) dove l'afrobeat ritorna come in una specie di trasfigurazione onirica mescolato a suggestioni che ci rimandano agli anni a cavallo tra Sessanta e Settanta, tra rock, soul, funk e un pizzico di quell'Africa astratta e futurista delle proiezioni più visionarie del Miles Davis elettrico. Echi di un passato nel quale Allen ha fatto la sua parte e che rimurgina incontrando il presente: bassi profondi, ritmi ipnotici e spazi sonori rarefatti che portano dritto dritto nei club più sofisticati, dove l'afrobeat, debitamente manipolato e campionato è tornato a più riprese d'attualità.
Dagli Allenko Brotherhood Ensemble a Damon Albarn (da sempre suo fan e che coinvolgerà il batterista nigeriano in diversi progetti come The Good, The Bad & The Queen, Rocket Juice and the Moon o Africa Express) passando per Jimi Tenor (Inspiration Information, OTO Live Series), Jeff Mills (il recente Tomorrow Comes The Harvest) o per i ''nostri'' Nu Guinea (The Tony Allen Experiments) ..., Tony ha sempre lasciato che intorno alla sua batteria nascessero interi collettivi: ''Non voglio che la mia musica sia ancorata ad ambienti specifici, ecco perchè mi sono evoluto da questo punto di vista. Mi ci sono voluti diversi anni per realizzare quanto sia importante per me cercare di coinvolgere i giovani e la gente. Mi piace suonare per loro e vedere che loro amano la mia musica, che in questo caso diventa un veicolo di unione, qualcosa che in qualche modo ci rende tutti uguali''.
Anche l'autobiografia scritta nel 2013 con Michael E. Veal (Tony Allen: Master Drummer of Afrobeat) e un disco dell’anno successiovo (Film of Life) ci dicono di un musicista con lo sguardo proiettato al futuro, oltre a uno smisurato amore per il jazz che trova conferma in due lavori del 2017 come ''A Tribute To Art Blakey And The Jazz Messengers'' e ''The Source'', quest’ultimo sintesi del suo viaggio musicale e spirituale intrapreso attraverso Africa, America e Europa, ma anche nel recentissimo ''Rejoice'' (World Circuit, 2020) risultato dell' attesa collaborazione con un'altra leggenda africana, il trombettista e icona del movimento anti-apartheid Hugh Masekela; un progetto afrojazz che li coinvolgesse era stato pianificato adirittura negli anni Settanta, ma sempre rimandato fino a quando, nel 2010, aprofittando della pausa londinese dei rispettivi tour, i due artisti sono finalmente riusciti ad incrociare i loro strumenti in una sessione tenutasi nei Livingston Studios di Londra. Da allora, però, le registrazioni erano finite in stand-by e la pubblicazione finale dell’album era stata sempre rimandata fino a quando con la morte di Masekela, nel 2018, Tony Allen e il produttore Nick Gold, d’accordo con gli eredi dell'artista sudafricano, si sono impegnati a completare le registrazioni con il supporto di altri musicisti tra cui Joe Armon-Jones degli Ezra Collective alle tastiere, Tom Herbert al basso e Steve Williamson al sassofono tenore.
Jazz e Africa. Si chiude il cerchio. In mezzo moltissimo altro, tanto da valergli un posto di tutto rispetto nella storia della musica degli ultimi 50 anni. Esagerazione? Non per Brian Eno che di Tony Allen ebbe a dire senza esitazione: “Semplicemente il più grande batterista mai esistito”.