venerdì 16 novembre 2012

West Coast & Sixties Revival


ALLAH-LAS


Avvicinate l'orecchio alla conchiglia. Le sentite le onde dell'oceano? Se chiudete gli occhi per un po' vedrete che funziona. Sempre che siate interessati a farvi sopraffarre dal sapore nostalgico e malinconico proposto  dal surf/garage un po’ impolverato degli Allah-Las, quattro ragazzi californiani che si sono conosciuti lavorando alle dipendenze di un importante negozio di dischi, a Los Angeles, prima di mollare tutto e inseguire i profumi delle estati adolescenziali trasferendosi, fiore in una mano joint nell'altra, in uno scantinato interrato tra la montagna e la spiaggia della costa californiana, location perfetta per iniziare a dar forma alla loro musica, anche grazie alla supervisione del soulman bianco Nick Waterhouse. Risultati? Una serie di singoli come Long Jorney (cover di una garage band degli anni sessanta, i Roots) ''Catamaran'', ''Don't You Forget It'' (con lo stesso Waterhouse) e un omonimo album le cui stroboscopiche canzoncine sembrano uscite dalla penna di Mick Jagger o di Arthur Lee, in un rimbalzo continuo tra Londra e Los Angeles, british invasion e dolce surf-psychedelia westcostiana: chitarre cristalline, percussioni slow-motion, rilassatezze drogate che sanno tanto di tramonto sulla spiaggia e maree notturne. Il riflesso di un riflesso, l'eco do un eco. L'onirismo di certi suoni è duro da vincere. Ben venga se poi i risultati sono quelli di ''Allah-Las'' (Innovative Records, 2012).

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BEACHWOOD SPARKS


Se siete un po' immalinconiti dalle brutture del mondo moderno potete anche farvi inebriare dalle fascinazioni e dalle vibrazioni di ''The Tarnished Gold'' (Sub Pop, 2012), il disco che sancisce il ritorno di Brent Rademaker (che nel frattempo era finito a lavorare all'Ikea) e dei suoi Beachwood Spark, archeologi del Laurel Canyon scomparsi dalle scene da più di dieci anni dopo aver pubblicato agli albori del nuovo secolo quei due gioiellini revival che sono ''Beachwood Sparks''  (Sub Pop, 2000) e ''Once We Were Trees''(Sub Pop, 2001), quest'ultimo registrato nello studio di J.Mascis dei Dinosaur Jr, che ha pure suonato in un paio di brani (di chitarre sature e distorte, però,  neanche l'ombra). Ma, a pensarci bene, cosa sono dieci anni per una band esule dal concetto stesso di tempo? Se amate o avete amato, se rimpiangete o avete rimpianto Byrds, Flying Burrito Brothers, Love, i Grateful Dead di Workingman's Dead, non esitate a cogliere anche questo colorato fiorellino e sarete avvolti da una psichedelia sognante e orgogliosamente retrò, infarcita di scampoli agresti e voli lisergici, boschi incantati e soffici arabeschi. E nel mare magnum delle decine di produzioni che stanno ricalcando questo tipo di suoni (Fleet Foxes, Father John Misty, Jonathan Wilson.. ) sarebbe un vero peccato se questo disco passasse quasi del tutto innosservato.








TIM COHEN (MAGIC TRICK + FLESH & ONLYS)


Si respira aria di west coast e di flower power anche in ''Ruler Of The Night'' (Hardly Art; Sub pop, 2012) dei Magic Trick, l'ultima mutazione dell'ottimo Tim Cohen, che per l'occasione si è fatto accompagnare da Noelle Cahill, Alicia Vanden Heuvel (Aislers Set) e James Kim (Kelly Stoltz) producendo undici traccie di ottimo neosixtiespop semiacustico, con più di un occhio alla surf music, alle spiagge frichettone delle California, alle sonorità cavernose e vintage, al lo-fi d'ordinanza, al garage rock psychedelico targato '60 (da Barret ai Velvet, passando per gli Standells). Revival quanto volete, ma anche in questo caso di ottima fattura. D'altro canto le potenzialità di Cohen non si discutono, e tanto meno quelle dei suoi Fresh & Onlys (la band che divide con Kyle Gibson, Shayde Sartin e il chitarrista Wymond Miles, arrivato a sua volta al debutto in solo con ''Under The Pale Moo''), uno dei migliori  frutti di quella scena weird-garage psichedelica di San Francisco che (dai Thee Oh Sees a Ty Segall) sembra andare tanto di moda negli ultimi tempi. A due anni di distanza da quel gioiellino che è ''Play It Strange'' (In The Red, 2010), il gruppo sembra aver improvvisamente cambiato pelle con ''Long Slow Dance'' (Mexican Summer, 2012). Riducendo al minimo l'anima beardy, gli scossoni elettrici e le suggestioni visionarie dei dischi precedenti, il nuovo lavoro attinge tanto dal romanticismo paisley, quanto dalla psichedelia pop dell’Inghilterra di inizio anni ’80 (Soft Boys, Teardrop Explodes, Echo & The Bunnymen) favorendo sonarità acustiche e puntando su una certa pulizia negli arrangiamenti. Un'altra ottima prova, anche se all'insegna del cambiamento.

  
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