martedì 29 settembre 2009

Vic

. Vic Chesnutt
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Vic lo ha già fatto, salvarsi l'anima con la musica a spregio dell'handicap fisico che l'ha inchiodato su una sedia a rotelle che era un esuberante diciottenne. Stiamo parlando di uno dei più autenticamente ispirati songwriter americani, che nemmeno le attenzioni di Michael Stipe, suo mentore (e produttore) per lungo tempo, avevano saputo sottrarre dall'ambito di un ristretto culto. ''Sono un malinconico cantautore della Georgia, contea di Pike. Mi sento cittadino del mondo...e spero, un giorno, di possedere una chitarra migliore di quella che ho attualmente'' disse qualche anno fa. Se qua dovremmo dire solo delle novità attuali, ci si permetta almeno un moto d'emozione scaturito dal riascolto (14 dischi alle spalle) di canzoni purissime che conoscevamo già e che oggi, passate cento mode e mille gruppusculi da una botta e via, suonano ancora più pregnanti, più assolute.L'aspra, dolente poesia di Chesnutt ci porta in un microcosmo personale, ma largamente condivisibile, dove la musica lenisce le sofferenze. Sarebbe però eccessivo affermare che la condizione fisica del nostro, come detto costretto sulla sedia a rotelle da anni a causa di un incidente stradale, accentui il dolore, e quindi che la musica assuma un valore terapeutico e catartico nei confronti del suo malessere: le tematiche di Vic sono infatti riconducibili ad una malinconia generalizzata e universale, nella quale chiunque può riconoscersi. Dopo una carriera in solo a cantare il lato oscuro dell'esistenza e numerosissime importanti collaborazioni (quella con i Lambchop in veste di backin band su tutte, ma anche con l'acclamato chitarrista jazz Bill Frisell o con il Carismatico Van Dyke Parks...) arriva la svolta: si chiama ''North Star Desert'' e esce nel 2007 per la gloriosa etichetta di Montreal Constellation, label dedita a un personalissimo percorso artistico attraverso pubblicazioni di taglio post-rock e avant-garde. L'arrivo di Vic Chesnutt alla Constellation è risultato allo stesso tempo una sorpresa e un'ovvia destinazione. Non un cambiamento programmato, ma bensì una evoluzione logica, quasi una necessità vitale. I risultati fecero letteralmente gridare al miracolo, e l'artista compose, forse il miglior album di una discografia già ad altissimi livelli.
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Eppure l'idea iniziale di ''North Star Desert'' è da attribuire a Jem Cohen, filmmaker di Brooklyn (già al lavoro con Sparklehorse, Fugazi, Blonde Redhead e altri) che propose a Chesnutt di registrare all'Hotel2Tango, la base strategica della constellation. Al fianco del cantautore arrivò dunque una pletoria di artisti provenienti da esperienze eterogenee ma collegate, capaci di regalare un mood straordinario a un'opera fuori dal tempo. Ma North Star Desert è innanzi tutto un disco collettivo, perchè fin dal primo ascolto non possono sfuggire i singoli apporti dei musicisti chiamati ad affiancare Vic e Jem: l'impetuoso crescendo dei dei Godspeed You! Black Emperor, il coinvolgente avant-rock degli Hangedup, ma soprattutto la ricercata matrice alt-country dei Silver Mt Zion e le minimali strutture sonore di Frankie Sparo supportati dalla produzione di Guy Picciotto (Fugazi). Le dodici traccie qui raccolte raccontano storie di ''ordinario'' dolore, ma anche di stupore, di passione o di visioni fatte ad occhi aperti; è un disco di sincero songwriting, in cui gioie e patemi sorpassano i limiti strettamente linguistici per esprimersi attraverso stridori di chitarra, incursioni di batteria e adirittura field recordings. Su tutto la voce di Vic Chesnutt, indissolubilmente legata alle radici folk americane ma meravigliosamente chiara quando canta dello splendore della vita. Si va dal Chesnutt canonico in fuga solitaria con l’essenzialità di “Warm” ai primi sentori di distorsione nella successiva “Glossolalia”, dove i violini ricamano lo strazio dei cori, sino al deragliamento impetuoso (ed in crescendo) di una “Everything I Say” in cui la perenne tensione elettrica consuma il cantautorato e l’espiazione epica di goodspediana memoria. Ed è così che il bello e doveroso (torniamo alla scheletricità della ballata con “Fodder On Her Wings” e “Over”) si esalta nel blues inanimato di “Debriefing" (dove Picciotto vive con istinto la sua chitarra), prende piena consapevolezza sfogandosi in un country malefico (“You Are Never Alone”), sussurra ai deserti infiniti (“Rustic City Fathers “) e cerca la luce nell’ipnotismo di “Wallace Stevens”. Eppure, non bastasse ancora, tocca a “Splendid” accogliere l’essenza di quella una volta detta musica di confine, cavalcando veloce verso una meta ben precisa, rintracciabile anche nella straordinaria follia visionaria di “Marathon”.
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2008, arriva una nuova collaborazione, anche in questo caso tanto inattesa quanto meritevole: stavolta tocca ai concittadini Elf Power dare corpo ai versi allucinati e pungenti del songwriter georgiano. Nasce ''Dark Developments'' per Orange Twin. 9 brani fulminanti per fare pace con il soul, il folk, il rock e l’autunno. Ballate, dark novels, stravaganze cantautorali. Operina minore si, ma parentesi degnissima.
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2009: a due anni di distanza da ''North Star Deserter'' l''uomo di Athens torna in casa Constellation per dar vita a un nuovo piccolo capolavoro, ancora una volta supportato a meraviglia dagli stessi musicisti (Guy Picciotto dei Fugazi, e membri di Godspeed You! Black Emperor e Silver Mt. Zion) che contribuirono alla magnificenza di quel disco straordinario, e che anche in questo nuovissimo ''At the cut'' incarnano lo spirito di un collettivo che ha portato l’elettricità a livelli di sublime intimismo. L’album si apre con “Coward” (''il coraggio del codardo, non ne esiste uno più grande....'') uno dei pezzi che suggella la collaborazione tra Chesnutt e il regista-musicista che collabora da tempo anche con i Fugazi, Jem Cohen. Cohen aveva già utilizzato una versione live di “Coward” come sonorizzazione istantanea durante la proiezione del suo “Empires of Tin” al Vienna Film Festival del 2007. L’artwork del Cd di Chesnutt è costituito da una serie di fotografie scattate da Cohen stesso. Mentre l’autore risplende del suo genio, la musica assume il medesimo valore, tra archi, piano, implosioni, minimalismo e stralci acustici in un concetto di orchestrazione che caratterizza tutto il lavoro, dove il collettivo dei musicisti di Montreal e la poesia di Chesnutt si si compenetrano alla perfezione (''Chinaberry Tree''), e dove si alternano citazioni letterarie (Frank Norris, Joseph Roth...) a narrazioni a cuore aperto (il toccante dialogo con la morte di "Flirted With You All My Life'')... Ma in generale il disco trascende qualsiasi definizione o tentativo di classificazione, riesce ad essere una musica dagli effetti indefinibili: risulta difficile anche effettuare una graduatoria gerarchica delle canzoni, e nella loro varietà di atmosfere e suoni ognuna rappresenta una sfaccettatura della sensibilità superiore di Chesnutt. ''At the cut'' possiede una fiamma sonora indubbiamente sublime, gioiosa e allo stesso tempo commossa, ma di sicuro inconfondibile. Gettato nella desolazione attuale è il seme di una speranza futura, troppo emozionale per essere una semplice questione privata.
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