Dalla fine del mondo alla fine di un amore. Questa la frase che a grandi linee sottende la poetica del texano Josh T. Pearson, autentico cowboy dell'apocalisse dalla barba chilometrica. Musicista errante e tormentato, l'immancabile sombrero e una chitarra malconcia, Josh vede nella musica lo strumento per dar voce alla fede. Nel 1996 (assieme ai compagni Josh Browning e Brian Smith) forma i Lift To Experience , con i quali cinque anni dopo riesce finalmente a registrare il magnifico "The Texas Jerusalem Crossroads" [può essere raggiunto quì] doppio album ambientato in una post-apocalisse spirituale nei deserti texani, improvvisamente trasformati in paradiso terrestre. Il disco, pubblicato dall'etichetta inglese Bella Union anche grazie alle attenzioni del solito John Peel, si converte in una sorta di oggetto di culto per molti appassionati, soprattutto in Europa.
TJC è un lavoro dal suono epico, a tratti travolgente, con qualche progressione degna del miglior post-rock dell'epoca (i soliti Mogwai, Godspeed You! Black Emperor ecc) e stratificazioni shoegaze che si alternano a delicatissime ballate, ma soprattutto è opera caratterizzata da una sensibilitità e da una scrittura decisamente sopra le righe. La portata degli sforzi prettamente umani che Pearson convoglia nella produzione del disco lo inducono a sciogliere il gruppo proprio all'indomani dell'uscita del lavoro. Una profonda crisi esistenziale e religiosa porta l'uomo all' isolamento e a un periodo di sedute psichiatriche. Qualche anno più tardi, trasferitosi in Europa, riappare in alcuni concerti inglesi (uno dei quali immortalato nel 2005 nel bellissimo CD-R bootleg ''To Hull And Back'' con pezzi del tutto nuovi), e poco a poco il suo nome torna a circolare sempre più insistentemente, anche grazie a una serie crescente di concerti e collaborazioni. Ma la vera svolta è quando, sul finire de 2009, i Dirty Three lo chiamano a fare loro da supporto per un tour irlandese grazie al quale Josh si guadagna un grande successo di pubblico e di critica. E' la svolta. Josh capisce che è finalmente arrivato il momento per un nuovo lavoro.
Registrato a Berlino nel Gennaio del 2010 in un paio di giorni, ''Last Of The Country Gentleman'' (Mute, 2011) [quì] è un disco di un'intesità sconvolgende. Il materiale è, al solito, doloroso, disperato, sofferto, ma questa volta l'apocalisse è privata, e riguarda un'amore finito, sublimato dalla musica in lunghe mediatazioni (sette tracce con quattro di queste che superano i sette minuti) dove un uomo solo, pochi accordi di chitarra e un flebile filo di voce, si cimenta in intime confessioni e agonizza alle prese con un parto emotivo più grande di lui (sembra che Josh abbia avuto bisogno di due settimane di completo riposo dopo il termine delle registrazioni) con le melodie che giocano a nascondersi, e faticano a rivelarsi se non dopo ripetuti ascolti. Personalmente avrei preferito un utilizzo del violino (Warren Harris) e del pianoforte (Dustin O'Halloran) più incisivo - quando spuntano dalle spoliazioni sono puro ossigeno - e non credo che per questo il disco avrebbe perso lo straordinario grado di emozionalità che lo contraddistingue e grazie al quale Josh è meritatamente riuscito a mettere daccordo quasi tutti in sede critica.
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