.
Distintosi per l'alta capacità di metabolizzare un certo tipo di suoni e farli suoi con gusto ed originalità, siano essi quelli della techno intelligente, della dinastia Basic Channel-Maurizio-Chain Reaction o del revival techno-dub,
Andy Stott ha sempre dimostrato di essere un passo avanti. La sua costante produttiva è incentrata su un pensiero groovistico piuttosto cupo che rispecchia in pieno l’onda intrapresa dalla sua
Modern Love (medesima scudereia del progetto
Demdike Stare). Stott ama defilarsi, lavorare dietro le quinte, e trascorre la maggior parte del suo tempo occupandosi di produzioni altrui, ma quando esce allo scoperto i risultati sono sorprendenti. Pur mantenedo un solido approccio techno-dub, il produttore di Manchester intraprende con
''Passed Me By'' l'ennesima metamorfosi compositiva di rottura, un viaggio a ritroso di rara potenza e complessità che spogliandosi del superfluo si dirige verso il primordiale (le radici) restituendoci (a partire dalla scioccante copertina) un lavoro di dirompente forza evocativa. Sette traccie per mezz'ora di musica in cui Scott forza la pausa del beat fino a lasciarlo in coma (la media delle tracce è cento battute per minuto); sommerge l'ambiente in una spessa nube di sintesi a passo di tartaruga (''New Ground'') di bassi profonsissimi (''Passed Me By'') di intermittenze al neon (''Intermittent''
). Un lavoro da iniettarsi preferibilmente in cuffia e al massimo del volume .
Un'ondata di musicisti stà attraversando il Sahara. Un suono spinto da calde ventate di chitarre elettriche che conservano la mobilità espressiva dei vecchi cordofoni. Il blues del deserto. Tuareg a lungo incazzati hanno scelto di rivendicare la propria libertà e cultura servendosi di strumenti dell'iconografia occidentale. Ma chi rimane ancorato alle forme elementari rischia di ripetersi all'infinito e di diventare una promessa non mantenuta. Allo stesso modo, chi si spinge ai limiti del genere rischia di di perdere l'essenza del sound.
Bombino è uno di quegli artisti che hanno saputo trovare un giusto compromesso riuscendo ad aggiungere al loro sound un brillante tocco pop senza snaturare per questo l'impronta tradizionale della sua musica. Dopo aver guidato il
Group Bombino, uno dei progetti di riferimento dell'incredibile scuderia
Sublime Frequencies (e aver patito l'uccisione di due dei suoi vecchi musicisti)
Omara ‘Bombino’ Moctar arriva con
''Agadez'' al suo debutto solista, uno splendido lavoro in cui omaggia, a partire dal titolo, la grande città del Niger in cui nacque nel 1980 e dalla quale fu ben presto costretto a fuggire a causa delle violente reazioni dei governi di Niger e Mali alle ribellioni Tuareg del 1990. Nei suoi brani più che muri di suono si ascoltano ipnotiche e insistite tirate ondeggianti, messe in piedi con l'ausilio di certo blues scarnificato, del fraseggio libero della sua chitarra con il vento della trance che spira sul Sahara. Bombino ha la capacità di porre il proprio strumento al centro della scena come facevano i suoi idoli, da Hendrix a Jimmy Page, da John Le Hooker a Ali Farka Toure. Ma nei solchi di questo disco si respira qualcosa di speciale, un impasto caldo e emozionante in grado di evocare paesaggi suggestivi e commoventi.
Se per lo
splendido album d'esordio, si parlava di canzoni misteriose ed emozionanti e di un songwriter,
Bon Iver, sottomesso a un processo di catarsi, che si ritira in una baita in montagna, lontano dalla civilizzazione, per ritrovare se stesso, basta osservare la copertina dell'ultimo omonimo album per capire che qualcosa nel frattempo è cambiato. Dal bianco invernale del primo al verde (quasi) primaverle del secondo. Dagli scarni paesaggi acustici di
''For Emma, Forever Ago'' alla maggior eterogeneità e alla profusione di una crescita strumentale di
''Bon Iver''. Anche se la voce e i falsetti mantengono quel tono di incantevole intimità a cui
Justin Vernon ci aveva abituati, quì ogni canzone viene potenziata da trombe, sassofoni, pedal steel, percussioni e leggere brezze elettroacustiche. Certo, i pesaggi cambiano (a partire dai riferimenti geografici dei titoli), ma il panorama resta comunque sublime.
Scoperto grazie all'ottimo
Guylum Bardot,
Dusty Kid è il moniker dietro al quale si nasconde il producer/dj cagliaritano
Paolo Alberto Lodde. Pubblicato, come il precedente
''A Raver's Diary'' (del 2009) su Boxer Recording,
''Beyond That Hill'' è un lavoro dalla verve epica, con lunghi temi tra techno house e trance progressiva (apparentemente prosaica) dalle sonorità algide e profonde, in costante equilibrio tra naturale e sintetico, in cui ballo e introspettività romantica trovano un equilibrio perfetto in un sali e scendi di emozioni e di paesaggi astratti. Un viaggio sonoro ricco di arpeggi malinconici, sublimi armonie vocali, grooves micidiali e la chiusura in bellezza di ''That Hug'', 23 incredibili minuti di progressioni house in cui spunta persino il suono di un sassofono (credo). Qualcuno forse potrebbe rimanere sorpreso per questa scelta, ma una volta caduti nella spirale di Beyond That Hill non se ne esce più. Questo
il video promo.
JOSH T. PEARSON
Last Of The Country Gentlemen (Mute)
Dalla fine del mondo alla fine di un amore. Questa la frase che a grandi linee sottende la poetica del texano
Josh T. Pearson, autentico cowboy dell'apocalisse dalla barba chilometrica. Musicista errante e tormentato, l'immancabile sombrero e una chitarra malconcia, Josh vede nella musica lo strumento per dar voce alla fede. Nel 1996 (assieme ai compagni Josh Browning e Brian Smith) forma i
Lift To Experience , con i quali cinque anni dopo riesce finalmente a registrare il magnifico
"The Texas Jerusalem Crossroads" doppio album ambientato in una post-apocalisse spirituale nei deserti texani, improvvisamente trasformati in paradiso terrestre.
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JONATHAN WILSON
Gentle Spirit (Bella Union)
Fino a poco tempo fa non lo conosceva nessuno. Eppure la sua lunga esperienza come musicista (con Josh Tillman, Erykah Badu, Elvis Costello ecc.) e produttore (tra gli altri anche di Bonnie ''Prince'' Billy) lasciano intendere come l'abilità compositiva e la maestria interpretativa di
Jonathan Wilson non siano del tutto casuali. E infatti
''Gentle Spirit'' tradisce una consapevolezza e una maturità davvero invidiabili. Un esordio partorito a fuoco lento in un ambiente familiare, aiutato da da illustri amici/colleghi come Andy Cabic (Vetiver), Chris Robinson (The Black Crowes) o Gary Louris (The Jayhawks). Un disco emozionalmente demolitore, brillante e intenso. I brani sono pacati e sensuali, dei piccoli trattati di folk-rock che abitano l'utopia del Lauren Canyon (che Wilson ha peraltro contribuito a far rivivere), le melodie West Coast (Gram Parsons, CSNY, Neil Young), la psichedelia gentile
, così come certo folk europeo (da Nick Drake, a Roy Harper passando per il primo Van Morrison). E pazienza se siamo nel 2012. Questo è un gioello da amare alla follia.
MATANA ROBERTS
Coin Coin Chapter One: Les Gens De Couleurs Libres (Constellation)
Matana Roberts è una delle figure più luminose della nuova generazione di improvvisatori afroamericani. Cresciuta nella dinamicissima scena jazz di Chicago, (iscritta alla
Aacm e già parte degli
Stick ans Stone) la sassofonista si è convertita in breve tempo in un punto di riferimento ineluttabile al momento di citare le proposte più rilevanti nell'ambito delle nuove musiche creative. Nella sua esposizione stilistica si manifesta un rigoroso compromesso: fondere con naturalezza le radici mistiche e lo spirito tradizionale della musica afroamericana con le nuove correnti di espressione urbana attraverso un irrevocabile vocazione esplorativa nel campo della libera improvvisazzione. Registrato dal vivo a Montreal il 9 luglio 2010 da un ensemble di trenta elementi (per lo più appartenenti alla scena che fa capo alla scuderia
Constellation, che pubblica il lavoro)
''Les Gens De Couleurs Libres'' è il primo capitolo di
Coin Coin, una serie di dieci pubblicazioni in cui ogni capitolo sarà un omaggio a un’antenata di Matana. Un disco corale di ampio respiro in cui l'influenza esercitata dalle tradizioni viene incorporata alla musica come una guida funzionale allo sviluppo di una proposta innovativa. Questo si manifesta non solo nella sperimentazione di suoni e tessiture, permettendo di conseguenza al progetto di ottenere un vocabolario proprio, ma anche nell'intenzione di documentare l'asfissia dei nostri tempi, con le sue brutali differenze socio-economiche e inequità socio-culturali. Una sorta di parabola creativa che descrive un percorso elittico che partendo dalla tradizione afroamericana (in tutte le sue componenti) si dirige verso territori inesplorati (anche attraverso partiture complesse) per poi tornare a chiudere il cerchio, mantenendo intatto il messaggio di protesta che si annida nel DNA della migliore musica jazz.
SHABAZZ PALACES
Black Up (Sub Pop)
Sgombriamo il campo da ogni dubbio: gli
Shabazz Palaces hanno realizzato uno dei lavori più belli e interessanti dell'anno. D'altronde essere i primi ed unici artisti hip hop scelti da una scuderia come la
Sub Pop arrivata al suo venticinquesimo anno di vita, qualcosa vorra pur dire. E chi ha seguito il percorso artistico di
Ishmael “Butterfly” Butler saprà di certo che non ci riferiamo a un artista convenzionale. Ribatezzatosi
Palaceer Lazaro, Butler non vuol più sentir parlare del suo passato. Ma ci si può forse astenere dal ricordare un passato che si chiama
Digable Planets? Fondati proprio dall'Mc di Seattle al principio degli anni Novanta i Digable Planets sono stati un magnifico terzetto con base a Brooklyn che guardava l'hip-pop attraverso le radici del jazz con gusto e originalità (divertendosi a campionare, tra gli altri, artisti come Art Blakey e Sonny Rollins) e con i quali Butler arrivò ad incidere due magnifici lavori (che
vi invito a recuperare qual'ora non ne foste in possesso). Quasi sparito dalla scena musicale (eccezzion fatta per la breve parentesi con i
Cherrywine con i quali nel 2003 realizzò il disco ''Bright Black'') è ora il nuovo sodalizio con il percussionista
Tendai Maraire e la nascita del progetto
Shabazz Palace a dare a Butley una nuova, meritata visibilità artsistica. Anticipato da un paio di EP autoprodotti,
''Black Up'' è un disco tanto difficile da catalogare, quanto estremamente affascinante. Butley (pardon, Palaceer Lazaro) parla di
''trippy, space-age hip-hop'' e noi non possiamo far altro che approvare la sua definizione. C'è un impazienza frenetica nel modo in cui ritmi, samples (di ogni tipo) e beats si susseguono in questo lavoro. Inutile cercare di spiegare come tali strutture funzionino così bene insieme, di come partendo da proporzioni così distinte, da modi e stili apparentemente inconciliabili si possa raggiungere una messa a fuoco così eterogenea ; l'importante è lasciarsi trasportare dalle sensazioni che ogni canzone consegna, passo dopo passo. Allo stesso modo le composizioni richiedono una certa collaborazione da parte dell'ascoltatore per rivelare il loro fascino e risaltare in tutta la loro genialità. Provare per credere.
SOEMA MONTENEGRO
"Passionaria" (Western Vinyl, 2011)
Nata a Buenos Aires nel 1978
Soema Montenegro è una magnifica cantante, multistrumentista e compositrice argentina (ma anche scrittrice, guaritrice e, come afferma qualcuno, ottima cuoca). Una poetessa surrealista e sciamanica.
"Passionaria" (Acqua Records; Western Vinyl), che non esito a definire uno dei dischi più belli e riusciti tra quelli ascoltati quest'anno, è la sua seconda prova dopo
''Uno Una Uno'' (Noseo Records, 2008) l'esordio di tre anni fa. Una raccolta di canzoni libere e sperimentali, con la voce di Soema che si lancia liberamente nell'aria, e gli strumenti che la seguono e la guidano.
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ZOMBY
Dedication (4AD)
Giocando alla
non identificazione e poco amante degli scenari, nel più puro stile Burial, il misterioso
Zomby opera dal 2007
(il 12'' ''Memories''). Da lì in avanti un susseguirsi di remix, singoli ed EP per etichette anche prestigiose (tra cui la
Hyperdub), gli favoriscono una brillante reputazione nell'ambito della scena post-dubstep, fino all'approdo 4AD e l'atteso nuovo lavoro anticipato dal singolo
''Natalia's Song'' (creato sulla base del campionamento di un pezzo di Irina Dubtzova, vincitrice dell'X Factor russo). Lasciati da parte i beats grassi e i suoni ''chimici'', a prevalere sono milimalismo e raccoglimento. Monumento di percussioni essenziali, linee di basso pulitissime e sintetizzatori eterei,
''Dedication'' stilla una strana e additiva fascinazione. I suoi pezzi (frammenti sonori come fossero porzioni di tracce lasciate in sospeso) sembrano capsule di ricordi, briciole di rimpianti di esseri erranti (In ''Vanquish''
è come se Cluster o un Brian Eno fossero stati abbandonati in una stazione orbitante danneggiata). La presenza della fragile voce di Panda Bear in ''Things Fall Apart''
, o il piano languido di ''Basquiat'', contribuiscaono a rafforzare questo effetto di nostalgia futura. Vivaio di tessiture profonde, inventivo nelle frasi melodiche, seduttore e malsano, ''Dedication'' è la maestuosa scultura sonora che Zomby dedica commosso al padre, appena scomparso.
.
SEGUONO A RUOTA
(E PROVANO IL SORPASSO):
°
Colin L. Orchestra:
Infinite Ease..(Northern Spy)
°
Demdike Stare:
Tryptych (Modern Love)
°
Grouper:
A | A - Alien Observer..(Yellowelectric)
°
Moritz Von O. Trio:
Horizontal Structures (Honest Jon's)
°
Orchestra Poly Rythmo:
Cotonou Club (Strut)
°
Peaking Lights:
936 (Not Not Fun Records)
°
Seun Kuty:
From Africa With Fury: Rise (Because M.)
°
Starlicker:
Double Demon (Delmark Records)
°
Susana Baca:
Afrodiaspora (Luaka Bop Records)
°
Tom Waits:
Bad As Me (Anti Recordings)