Willie Dixon |
Il suo disco più famoso è ''I’m The Blues'', come pure la rubrica che ha curato regolarmente per anni sulla prestigiosa rivista Living Blues. Segno di un ego grandissimo, potrebbe pensare qualcuno, invece no: perché Willie Dixon può fregiarsi di quel titolo senza paura. Di quello e di altri ancora. Onori che si è conquistato sul campo come bassista e autore tra i più prolifici che il blues ricordi, dotato di una rara sensibilità poetica, ora come produttore, arrangiatore, maestro di bottega per intere generazioni di musicisti neri, straordinaria figura di catalizzatore tra blues e rock, e quindi punto di riferimento per molti degli eroi che albergano nei nostri cuori. La lista degli artisti che hanno interpretato le sue composizioni è lunghissima: da Elvis Presley a Chuck Berry, da Bo Diddley a Mose Allison, dai Rolling Stones agli Yardbirds, dai Led Zeppelin ai Creem, Doors, Allman Brothers, Fleetwood Mac, Grateful Dead, Mike Bloomfield, Paul Butterfield, Eric Clapton, Steve Winwood, Van Morrison, Dr. Johhn, John Mayall, Johnny Winter, persino eroi del soul come Sam Cooke ed Otis Redding hanno attinto al suo repertorio, per non parlare di altri grandi bluesman come Muddy Waters, Howlin Wolf, Little Walter, Lowell Fulsom ecc. ecc. Un grande personaggio quello che nasce a Vicksburg, Mississippi, il 1° Luglio 1915. La famiglia è poverissima e la vita ricca solo di stenti. Ma la fantasia è accesa da una grande passione per la poesia, ed il rapporto con la musica mediato dagli spirituals e dal gospel. Verso la metà degli anni Trenta Dixon lascia il Delta (pare a causa di numerose grane accumulate con la legge) per Chicago, dove svolge infiniti umili mestieri e dove inizia a tirare di boxe. Sarà Leonard ''Bobby Doo'' Caston ad avvicinarlo al mondo della musica. Lo strumento su cui imparerà è un rudimentale bidone di latta dentro il cuale veniva infilato il bastone che teneva la corda. Le prime apparizioni pubbliche risalgono alla prima metà dei Quaranta, E’ con i Five Breezers, [ascolta] una formazione da night. Pochissime le testimonianze di quel periodo, edite originariamente su qualche 78 giri della Bluebird. Nel ’45 è con i Four Jumps Of Fire: un blues da intrattenimento il loro, che verrà messo su disco dalla Mercury.
L’esperienza più importante di quegli anni è invece quella con il Big Three Trio, un misto di jump e blues molto diverso da quello che faceva con i gruppi appena citati. A quel periodo risale il suo primo best seller: ''Signifyinf Monkey'' su Bullet Records, che sarà rifatto più tardi anche da Cab Calloway. Questa ed altre canzoni (in una qualità sonora migliore rispetto a quella del video proposto) si possono ascoltare in ''Willie Dixon/Big 3 Trio'', una compilation licenziata dalla Sony nel 1990 [recuperabile qui]. Suonava ancora in quella formazione quando conobbe Muddy Waters. I Cinquanta bussavano alla porta ed il blues chiedeva di cambiare. Una intuizione che fu anche dei fratelli Chess che lo vollero presso di loro come factotum. Il primo brano che produsse fu ''Black Angel Blues'' per Robert Nighthawk, cui ne seguirono altri per Chuck Berry, Bo Diddley, Muddy Waters, Little Waters, Hohlin Wolf e per tutta la schiera dei bluesman di Chicago. Sul finire dei Cinquanta fiuta il blues revival: si unisce a Memphis Slim e si esibisce davanti al pubblico bianco del Village Gate e a quello del Folk Festival di Newport.
Nel 1959 firma il suo primo trentatré giri assieme al citato Memphis Slim, lo stupendo ''Willie’s Blues'' (Bluesville) [qui], il cui accompagnamento è affidato ad un gruppetto di musicisti neworkesi. Nel 1960 registra, senpre in duo con Smith una serie di brani che saranno pubblicati su ''The Blues Every Wich Way'' (Verve) e la collaborazione con il grande pianista sfocerà un paio di anni dopo nei bellissimi dischi per la Smitsonian Folkways: ''At Village Gate'' (con la partecipazione di Pete Seeger) e ''Songs of Memphis Slim & Willie Dixon''. Nello stesso anno (il 1962) la ditta Dixon & Slim è in prima fila a sostenere l’American Folk Blues Festival, ovvero la carovana itinerante che porta la musica e la cultura afroamericana sul vecchio continente e a Parigi registrano ''Memphis Slim & Willie Dixon Aux Trois Mailletz''. Ma la vulcanica personalità di Dixon non si esaurisce certo nelle incisioni: è direttore artistico e produttore (alla Spivey Records), incoraggia ''giovani'' artisti (tra cui Otis Rush), fonda e dirige etichette: la Blues Factory, che nelle sue intenzioni doveva diventare una sorta di università del blues. Nel 1967 costituisce la Chicago Blues All Stars, una formazione in continuo mutamento (nelle sue fila c’è passata praticamente la crema del blues di Chicago) che lo accompagnerà per quasi vent’anni.
Lungo i Settanta vedranno la luce i suoi album più famosi: l’ottimo ''I’m The Blues'' (Columbia, 1970) [qui] a cui accennavo a inizio post, ''Loaded With The Blues'' (Basf, 1972), ''Catalyst'' (Ovation, 1973) [qui], ''Peace'' (Yambo, 1974), ''What Appened To My Blues'' (Ovation, 1976) ed altri. Intanto la sua salute inzia a peggiorare a causa di un persistente diabete che, nel 1977, lo costringe all’amputazione di una gamba, ma Willie non viene fiaccato nello spirito tanto che anche la nuova decade sarà foriera di novità: l’album ''Mighty Earthquake and Hurricane'' (Pausa Records, 1984), ''Backstage Acces'' (Pausa Records, 1985). La prima metà degli anni Ottanta è anche caratterizzata da altri avvenimenti: nell’81 partecipa per la prima volta nella sua carriera ad un tour con Muddy Waters, si concede in alcune esibizioni con Johnny Winter, Eric Clapton, Greg Allman e partecipa ad uno spettacolo televisivo con i Blasters, con i quali registra anche alcuni brani.
Dixon muore di infarto nel 1992 e viene sepolto ad Alsip, nell'Illinois, non prima però di lasciarci un ultimo capolavoro (almeno per me, visto che si tratta del mio preferito tra gli ascolti della sua discografia) intitolato ''Hidden Charms'' (BUG-Capitol, 1988) [qui]. Sono molto affezionato a questo lavoro e non ho mai smesso di ascoltarlo negli anni. Il mio fratellone fece il primo passo acquistando il vinile. Qualche anno dopo lo imitai, questa volta con il cd, e da qualche settimana i files dei brani sono andati a colmare anche i pochi MG disponibili nel mio I-Pod (e dubito possano mai uscirne). Il disco è la cosa più classica (in senso buono) che ci si possa immaginare, ed è costruito anche con il contributo importante di T-Bone Burnett in sede di produzione, che ha pensato di far reagire un suono tanto raffinato come quello espresso dai musicisti che parteciparono alle registrazioni con un qualcosa di così profondamente arcaico come il vocione di Dixon. I tocchi gentili di dobro da parte dello stesso T-Bone, gli accompagnamenti pizzicati di chitarra elettrica e steel guitar di Cash McCall, il piano del veterano Lafayette Lake, la garbata scansione ritmica del consumato batterista neworleansiano Earl Palmer, il meraviglioso contrabbasso di Red Callender, le deliziose rifiniture d’armonica di Sugar Blue (sto riportandi i nomi direttamente dal retrocopertina del disco che in questo momento tengo tra le mani) danno l’idea di un lavoro di cesello da parte di una cooperativa di ottimi artigiani della musica a favore di un dilagare di umori e di mille sfumature. Un blues venato in lungo e in largo di folk e di tradizione popolare, pacato e sornione, ma che riesce ad evocare buonissime sensazioni all’ascolto. Musica che parla direttamente al cuore e che, una volta incontrata, è quasi impossibile abbandonare.