martedì 28 settembre 2010

L'eredità di J Dilla



Tra tutti i (veri o presunti) discepoli del defunto J Dilla, Curtis Cross, classe 1983, meglio conosciuto come Black Milk si era fatto notare - già dai tempi di ''Popular Demand'' (Fat Beats, 2007) e soprattutto ''Tronic'' (Fat Beats, 2008,) – per un profilo artistico che prima ancora di ogni altra considerazione (e nonostante i continui, e a volte troppo insistenti, accostamenti con il citato maestro e concittadino) evidenziava alcuni tratti unici e peculiari del suo autore, sempre alla continua ricerca di una crescita e/o evoluzione artistica, e alla necessità di autosuperarsi. Ma a questo chiaro profilo probabilmente mancava solo la prova della consacrazione, il tassello definitivo, e in questo senso ''Album Of The Year'' (Fat Beats, 2010), titolo peraltro privo di intenzioni presuntuose (ma che allude a un idea di riassunto o compendio), arriva come complemento ideale, aggiustato e migliorato, dei suoi lavori precedenti e soprattutto come una nuova dichiarazione di intenti, salto di qualità/maturità in tutti gli aspetti creativi della sua parabola artistica.


Prima di inoltrarmi nell’appassionante bagaglio sonoro del disco, è bene sottolineare i notevoli miglioramenti di Black Milk come MC. Detto questo, entrando in territorio strettamente musicale, oltre a tutta una serie di aspetti che lo accomunano (appunto) al grande J Dilla (beats rotti, tempi asimmetrici, samples di funk/soul, proiezioni futuriste..), in ‘’Album Of The Year’’ Black Milk sembra aver ben assimilato anche altre vie espressive, come per esempio quella patentata da gruppi come i Roots, tra i primi a combinare e integrare tra di loro samples, loops e strumenti, fondendoli magistralmente in un unico suono.


Ma mentre l’hip hop dei Roots si stà spingendo sempre più nella direzione di un folk pastorale e di un pop arty (bellissimo anche il loro ''How I Got Over'', pubblicato quest'anno dalla Def Jam), Black Milk flirta (e in che modo!) con il gospel, con la psichedelica, con l’afro-funk, con il latin jazz e a volte anche con il rock dei ’70, diramando un potente cocktail stilistico. In ambo i casi, però, le fonti di ispirazione e i riferimenti esterni non sono mai a supporto di un crossover ''bananero'' e l’essenza dell’hip hop (quello puro e duro!) non si perde in nessun minuto del suo percorso. Il modo in cui l’artista di Detroit integra una vera band di musicisti nel vortice di vecchi samples e beats apocalittici (grandiose le parti di batteria) è sorprendente per fluidezza, naturalità e brillantezza, ma anche per l’alto grado di esigenza che lascia intravedere il meccanismo. ''Album Of The Year'' trova una sua piena identità nell'odierno panorama dell’hip hop che conta e suona fresco pur mantenedo vivo il ricordo dei lavori che l’avevano preceduto. La convivenza perfetta di tradizioni, radici, essenza creativa e ricerca. Massimo rispetto.

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